L’armistizio di Badoglio

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Le trattative segrete intraprese dagli emissari di Badoglio portarono in breve ad un notevole avvicinamento delle posizioni italiane ed alleate; in particolare il comandante supremo alleato, generale Eisenhower, ricorda che il problema, nell'armistizio con l'Italia, non furono tanto le condizioni imposte dai vincitori (condizioni peraltro dure, in quanto la resa doveva essere "incondizionata"), quanto un problema ben diverso: "Prima di deporre le armi infatti - scrive Eisenhower - gli italiani volevano avere la certezza che una potente formazione alleata sarebbe sbarcata il giorno stesso della loro resa e prima dell'annuncio dell'armistizio, per proteggere il governo e la città dalla rappresaglia tedesca. Volevano quindi conoscere i dettagli dei nostri piani. Noi non volevamo rivelarli, perché dovevamo tener conto di un tradimento sempre possibile. Inoltre era assolutamente invadere l'Italia con gli effettivi auspicati dagli italiani - (la bellezza di 15 divisioni!) - per la semplicissima ragione che non disponevamo, in quel settore, di contingenti sufficienti ed ancor meno delle navi necessarie per il loro trasporto". Fu solo dunque dopo che gli alleati ebbero assicurato uno sbarco contemporaneo all'annuncio dell'armistizio (l'operazione Avalanche, il più sanguinoso sbarco dell'offensiva alleata, quello a Salerno), che Badoglio diede la sua approvazione alla firma dell'armistizio, che fu fatta a Cassibile il 3 settembre dal plenipotenziario generale Castellano.

Sorse a quel punto una grave ed inaspettata difficoltà, che spiega l'inaspettato precipitare degli eventi in quei giorni di settembre: il governo italiano si aspettava lo sbarco il giorno 12, mentre in realtà giorno J dell'operazione Avalanche era il 9, e questo spostava indietro di quattro giorni l'annuncio. Il maresciallo tentò anche in extremis di guadagnare tempo, ma invano, dato che, scrive il generale Eisenhower, "quella storia era durata anche troppo perché si potesse temporeggiare ancora. Risposi perentoriamente per telegramma che avrei annunciato la capitolazione alle 18.30 (del giorno 8) come già convenuto; se poi io l'avessi fatto senza che egli (cioè Badoglio) lo facesse contemporaneamente, l'Italia non avrebbe più avuto un solo amico in questa guerra": è questo lo sfondo che ci fa comprendere gli avvenimenti tra l'8 e il 9 settembre '43.

Tutto comincia con il Consiglio della Corona organizzato al palazzo del Quirinale alle ore 17.30 dell'8; Roma appare quel giorno vuota, deserta e silenziosa. Solo il cortile interno del palazzo è affollato di macchine, le vetture dei ministri Badoglio, Sorice, De Courten, Sandalli e Guariglia, dei generali Carboni e De Stefanis, del conte Acquarone e del maggiore Marchesi, tutti convocati nello studio del re, al secondo piano.

Vittorio Emanuele III siede a capo tavola, ed apre la seduta dicendo: "Come le loro signorie sanno, gli angloamericani hanno deciso di anticipare di quattro giorni la data dell'armistizio...". Tra i ministri c'è un moto di sorpresa, De Courten interrompe il re: "Veramente io non sapevo nulla!". In realtà non solo il ministro della Marina, ma anche altri ignorano che l'armistizio sia stato firmato, per quanto ciò possa sembrare incredibile: dopo il colpo di Stato del 25 luglio, infatti, le trattative immediatamente avviate con gli alleati sono rimaste segretissime, note solo ad una cerchia ristretta di persone.

Tra le due date comunque, la Corte e i comandi supremi avevano preparato un rovesciamento delle alleanze (tra l'altro per Casa Savoia c'erano molti precedenti di storici voltafaccia, da Vittorio Amedeo II che durante la guerra di successione era passato dal campo francese a quello austriaco, a suo figlio, Carlo Emanuele III, che addirittura stipulava trattati di alleanza in cui era previsto il passaggio al nemico), giurando e spergiurando fedeltà ai tedeschi, che invece avevano già capito il gioco e attendevano l'annuncio dell'armistizio solo per occupare militarmente l'Italia, e promettendo nel contempo agli angloamericani, in modo tanto solenne quanto falso, l'intervento di un esercito del quale erano già decisi a non servirsi: insomma, un tentativo di tenere il piede in almeno due scarpe, le cui conseguenze saranno evidentemente molto gravi.

Emblematico di questo doppiogiochismo italiano è lo stesso comunicato con cui Badoglio diede l'annuncio dell'armistizio, e le modalità stesse con cui tale annuncio venne fatto: la sera dell'8 settembre il maresciallo, in abito grigio e cappello floscio, seguito dal figlio Mario e da due agenti in borghese, si recò alla sede dell'Eiar di via Asiago all'auditorio "O", attese che alle 19.43 gli operatori interrompessero un programma di canzoni perché lo speaker potesse leggere il bollettino di guerra numero 1201, ultimo della serie, e poi recitare il comunicato dell'armistizio, con quell'ambigua frase fonte di tante tragedie, relativa alle forze armate italiane, che cesseranno qualsiasi ostilità contro gli angloamericani ma "reagiranno ad eventuali attacchi di qualsiasi altra provenienza". Tutto questo perché si potessero salvare il sovrano e coloro che lo circondavano, che credevano, o fingevano di credere, che la propria salvezza coincidesse con quella del Paese: il re diceva chiaramente di non voler correre il rischio "di fare la fine del re del Belgio: desidero mettermi in condizioni di esercitare le funzioni di capo dello Stato, arbitro della mia volontà e in assoluta libertà", e perciò in quel momento, nel capovolgimento delle alleanze, non c'era più posto per i doveri del re verso i sudditi nella buona come nella cattiva fortuna (parlare con i tedeschi, perdere la corona, magari la vita, ma fare uscire l'Italia da un martirio di quel tipo, dare al Paese direttive chiare e non ambigue). Invece l'8 settembre passerà alla storia come il giorno delle "fuga ingloriosa verso terre sicure", fuga di cui neppure ora si sa bene chi sia il responsabile.

E' inutile dire che anche su questo particolare si assiste ad un incredibile "palleggio" di responsabilità: il re lascia sempre intendere di essere partito solo perché riteneva proprio dovere seguire il governo, particolare confermato dal ministro della Real Casa Acquarone, che dirà davanti all'Alta Corte di Giustizia nel marzo del 1946, che "la partenza di Sua Maestà non era affatto prevista" - soggiungendo con sconcertante disinvoltura che - "io stesso, data l'ora tarda, profittando di una cortese offerta, rinunciai a recarmi a casa e rimasi a dormire al ministero della Guerra in una camera messa a mia disposizione. Si immagini il mio stupore allorché alle quattro e un quarto del giorno 9, fui chiamato per andare a raggiungere Sua Maestà il Re, il quale, su pressante invito del capo del governo, stava per lasciare Roma". La fuga sembrerebbe dunque essere stata un'iniziativa del primo ministro Badoglio, il quale peraltro afferma che l'idea di abbandonare Roma fu presa "in tutta fretta, dopo che il generale Roatta aveva comunicato che la situazione militare nella Capitale stava precipitando"; le memorie del generale Roatta, invece, smentiscono su tutta la linea le parole di Badoglio, affermando che l'iniziativa fu del governo: "...il governo decise di rinunciare all'ulteriore difesa della capitale", oppure: "...avendo il governo disposto che il comando supremo e gli Stati Maggiori lasciassero anch'essi la capitale". La fuga allora da chi fu decisa? Anche il Capo di Stato Maggiore generale Ambrosio nega di avere assunto l'iniziativa di fuggire, anzi egli voleva persino rimanere a Roma, e fu il re che dovette addirittura ordinargli di seguirlo a Pescara, e lo stesso discorso anche riguardo al principe Umberto, che affermò di essere venuto a conoscenza dell'armistizio insieme a tutto il resto del Paese, e cioè alle 19.45; dobbiamo anche escludere l'ultima possibilità, quella del ministro della Guerra Sorice, perché egli invece a Roma rimase, anche durante il periodo dell'occupazione nazista, periodo in cui svolse delicati incarichi clandestini.